Maggio 2017, Anno IX, n. 5
Marco Lombardi
Il terrorismo è comunicazione
“Un atto è di terrorismo per gli effetti che ha non per le ragioni che lo promuovono. Questa affermazione potrebbe essere anche falsa sul piano giudiziario, ma è vera sul piano sia politico sia sociale, perché l’effetto degli attacchi è stato e politico e sociale, impattando sulla quotidianità delle comunità colpite.”
Telos: “Dopo gli attentati di Parigi siamo tutti a rischio e dobbiamo imparare a convivere con questo dato di fatto. Dobbiamo accettare l’incertezza, la liquidità, il fatto che una misura della sicurezza non può essere data”. Sono sue parole del novembre 2015, cosa è accaduto da allora?
Marco Lombardi: Da quel 2015 sono accadute tantissime cose, confermando tutte le previsioni di un 2016 ancora più difficile dell’anno precedente e un 2017 che parte all’insegna delle medesime difficoltà: la propaganda di Daesh, che ha chiesto di non partire per combattere ma di restare nei propri paesi per portare il terrore, ha avuto successo. Ma soprattutto lo ha avuto la spinta alla “medio orientalizzazione” del conflitto, declinata da Daesh nella specifica formazione a colpire gli infedeli con le armi della quotidianità: un coltello, un’automobile, un camion, il fuoco e, prossimamente, i droni. Tutto, dunque, è ancora più incerto e, di conseguenza, imprevedibile. Basti pensare agli ultimi quindici giorni di marzo 2017: il 17 a Parigi un uomo ha sgozzato fratello e padre al grido di “Allah Akbar”; il 18 a Orly, Ziyed Ben Belgacem attacca l’aeroporto rubando l’arma a un poliziotto e gridando: “Sono qui per morire in nome di Allah”; il 22 a Westminster, Khalid Masood attacca con automobile e coltello; il 23 ad Anversa un matto di nome Mohamed tenta di investire i pedoni lungo una via commerciale della città, arrestato; il 3 aprile a San Pietroburgo l’attacco alla metropolitana. Diciotto giorni intensi, come pochi in passato, che hanno in comune l’espressione della violenza manifestata sempre attraverso i richiami del terrorismo islamista: si tratta di una rivendicazione esplicita di una agenzia terrorista (Amaq), di un grido al nome di Allah, del modus operandi ben promosso da Daesh, di un passato di radicale e combattente. Cinque attacchi in diciotto giorni, una sola matrice di ispirazione, una molteplicità di diverse ragioni a movente. Ma deve essere chiaro ormai che un atto è di terrorismo per gli effetti che ha, non per le ragioni che lo promuovono. Questa affermazione potrebbe essere anche falsa sul piano giudiziario, ma è vera sul piano sia politico sia sociale, perché l’effetto di ciascuno di quei cinque attacchi è stato e politico e sociale, impattando sulla quotidianità della vita delle comunità colpite, ponendo un problema istituzionale di governo della situazione con rilevanza anche internazionale. Il “terrorismo” è diventato l’atto espressivo della convinzione ideologica, religiosa e nazionalista, dell’arrabbiatura, della pazzia e del disagio. E di quant’altro su una base soggettiva, rinforzata da una strategia mediatica adeguata, richieda una affermazione violenta. In pratica il terrorismo è una forma diffusa di conflitto sfruttata nei suoi risultati dalle organizzazioni terroristiche, da queste promossa a livello soggettivo e realizzata a livello individuale. La conclusione è una generale incapacità previsionale degli attacchi e l’esplosione dell’incertezza.
Se diciamo oggi ISIS solo pochi replicheranno: ‘Ma cosa è’? Il Califfato segue quindi un progetto di comunicazione?
Il Califfato è nato “pubblico” ed è da sempre “pubblico” nelle dichiarazioni dei suoi intenti ed azioni, al punto tale da risultare mimetico. Fin da prima della sua fondazione ha dichiarato il proprio obiettivo, costituirsi e farsi riconoscere come uno Stato prima dalla comunità globale musulmana, poi dalla comunità internazionale, attraverso la progressiva declinazione del suo nome: ISI alla sua nascita in Iraq (Islamic State of Iraq), ISIL o ISIS quando si è allargato alla Siria e al Levante, incorporando nel nome i riferimenti mitici e simbolici allo Sham (Islamic State of Iraq and Siria, oppure Sham o ancora Levante); infine IS, semplicemente ed efficacemente l’Islamic State, quando ogni riferimento geografico è stato superfluo nella affermazione sovranazionale del Califfato. Ma non solo il nome è mediaticamente interessante per le sue connotazioni geopolitiche, lo è anche perché è esplicitamente programmatico esplicitando nello “Stato” l’obiettivo degli islamisti: da questa lettura mediatizzata propria della Guerra Ibrida ha origine il piano competentemente articolato della comunicazione di Daesh.
Lei si occupa di terrorismo internazionale da molti anni, e in particolare di terrorismo jihadista. Cosa significa reclutamento attraverso la radicalizzazione?
Daesh è stato il maggiore attrattore di combattenti internazionali dopo la Guerra di Spagna: la vera questione è proprio la capacità di attrarre jihadisti internazionali, combattenti stranieri che vadano a rinforzare lo schieramento, ma anche chi potesse supportare in qualche modo lo Stato Islamico, incluse le famiglie. E indubbiamente il risultato ottenuto da IS è di enorme richiamo per il jihad globale: il mito del Califfato si propone come un magnete di grandissima attrazione e promozione dei processi di radicalizzazione. Oggi il risultato della sistematica azione di proselitismo verso i gruppi radicali islamisti attivata dal Califfato ha permesso di realizzare una galassia diffusa e distribuita di oltre 40 affiliati a Daesh in 21 paesi diversi. Alcuni di questi riconoscono formalmente su di loro l’autorità del Califfo, altri lo appoggiano simpatizzando a seguito comunque di una loro dichiarazione di adesione. Ma ormai le piste della radicalizzazione sono molteplici e, addirittura, poco interessanti in quanto ragioni diverse (convinzione religiosa, convinzione politica, depressione, arrabbiatura, patologia psicologica, ecc.) portano tutte al medesimo risultato: un atto terroristico nei suoi effetti rivendicato, anche solo strumentalmente, da Daesh.
Negli ultimi anni il terrorismo è molto cambiato, e la dimensione digitale ha giocato un ruolo rilevante. Questa dimensione può essere anche sfruttata per contrastarlo? E se sì, come?
Già nel suo Rapporto del 2007 (Council on Global Terrorism) il Dipartimento di Difesa degli Stati Uniti ha riconosciuto che attraverso materiale non classificato diffuso in Internet è possibile raccogliere fino all’80% dell’informazione necessaria per la costruzione di un artefatto di grande potenza. Ma soprattutto in questi ultimi anni, il cyber-spazio si è convertito in un acceleratore del processo di radicalizzazione e reclutamento. Grazie all’anonimato garantito da Internet numerosi gruppi islamisti propagandano bollettini elettronici dal contenuto radicale, scambiano video, creano fori di discussione e comunicano tra loro in chat private: Internet dunque è classificabile come un fattore sociale per il processo di radicalizzazione e reclutamento, facilita la creazione di network e l’interazione interpersonale. Inoltre il monitoraggio sistematico dei siti web, reso difficoltoso dalla spesso scarsa permanenza dei medesimi e dalla molteplicità di livelli che ciascuno di essi offre, è particolarmente attento ai materiali audio-visivi distribuiti e, oggi, si deve concentrare su materiali ancora “più effimeri” come quelli che compaiono nei social network (FaceBook, Twitter, Youtube, ecc.). Il successivo sviluppo della rete, ma ormai da considerarsi insieme a tutte le tecnologie della comunicazione che confluiscono su differenti piattaforme (non più solo il computer ma, soprattutto, i telefoni smart) ha ulteriormente semplificato questi percorsi, consolidandone l’uso quotidiano nella pervasività e celebrazione dei social network che incorporano tutte le caratteristiche dei sistemi precedenti.
Marco Sonsini
Editoriale
La vita quotidiana ai tempi del terrore. E non parliamo di Rivoluzione Francese. Anche se Parigi e la Francia sono al centro del dibattito, dopo la serie di attentati che ha colpito il nostro vicino d’Oltralpe. Sembra infatti che proprio questi attentati abbiano instillato nel cuore degli italiani la convinzione che il pericolo viene anche dallo stile di vita e dal modo di gestire gli spostamenti. Le parole lupo solitario, foreign fighter, guerra ibrida sono diventate tristemente note. A questa conoscenza, ancorché superficiale, si affianca la domanda: ma il nostro Paese è a rischio attentato? Non vogliamo nemmeno provare a dare una risposta a questa domanda impossibile, ma visto che il terrorismo e la paura che produce ci accompagneranno per molto tempo, abbiamo pensato di intervistare Marco Lombardi, professore dell’Università Cattolica di Milano e uno dei maggiori esperti italiani di gestione del rischio e di politiche di sicurezza e terrorismo. È infatti anche coordinatore di ITSTIME, centro di ricerca sul fenomeno del terrorismo e gestione delle emergenze. L’obiettivo di questa intervista è comprendere le caratteristiche di questo nuovo terrorismo e di come sia indispensabile il ruolo di un analista per aiutare le Istituzioni a ripensare gli strumenti normativi – ma anche la strategia operativa - nella lotta contro questo fenomeno, così diverso da quello che abbiamo conosciuto in un passato non troppo lontano. Le lucide e chiare parole del Prof. Lombardi ci conducono per mano in un viaggio di conoscenza del terrorismo jihadista, la sua storia, le sue strategie di combattimento che si fondano su di una straordinaria abilità nel far uso delle leve della comunicazione, soprattutto di quella digitale. Proprio dalla ricerca del Prof. Lombardi e del suo gruppo di lavoro abbiamo tratto ispirazione per il titolo dell’intervista. Lombardi sostiene che la grande differenza che esiste tra un criminale e un terrorista è che, a quest’ultimo, interessa il riconoscimento simbolico che l'azione fornisce, ricerca il pubblico offerto dal sistema mediatico, vuole essere protagonista riconosciuto, e possibilmente osannato e imitato. Il terrorismo è comunicazione e gestisce comunicazione, e quindi questa valenza comunicativa deve essere assunta come strumento interpretativo del fenomeno. ‘Think Terrorist’ è, spero non me ne abbiano a male, il motto di questo straordinario gruppo di ricerca, che cerca di svelare e aiutare a contrastare Daesh approfondendo anche la dimensione tecnologica. Il lavoro di Lombardi non si limita all’analisi, ma contribuisce a mettere in piedi strategie proattive come la contro-narrativa, de/counter radicalizzazione, da affiancare alle risposte tradizionali. Saperne un po’ di più, siamo convinti, ci aiuterà ad affrontare anche le nostre paure e sottrarre dalle mani dei terroristi un’arma fortissima, quella che fa leva sulla nostra vulnerabilità psicologica.
Marco Lombardi è professore associato di Sociologia, Gestione della crisi e Comunicazione del rischio presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove è anche direttore del Centro di ricerca ITSTIME (Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies); è membro del Consiglio direttivo del Dottorato internazionale di Criminologia e del Master in Contesti relazionali di emergenza, e coordina le attività della sezione Ambiente, territorio e sicurezza del Dipartimento di Sociologia. Da oltre trent’anni le sue ricerche sono focalizzate ad indagare tutti gli aspetti della gestione della crisi e delle emergenze, con particolare approfondimento su sicurezza e terrorismo. È inoltre un esperto di immigrazione; molti suoi saggi fanno parte dei Dossier Statistici sulla Immigrazione e lavora da diversi anni con la Fondazione Ismu per le Iniziative e lo Studio della Multietnicità. Collabora con diverse Istituzioni su questi temi e, ad esempio è membro del Comitato di Riflessione e Indirizzo Strategico (CRIS) del Ministero degli Affari Esteri e della Commissione di studio sul fenomeno della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista, presieduta dal Presidente del Consiglio dei Ministri. È un consulente-esperto dei Carabinieri del ROS, soprattutto nell’ambito di indagini sul terrorismo. È membro del comitato di redazione del JD - Journal for Deradicalization ed è Scientific advisor dell’Osservatorio Terrorismo Globale di ISPI - Istituto per gli studi di politica internazionale. Fa parte del Gruppo di esperti della Commissione Europea per la "Giustizia, libertà e sicurezza" e collabora con numerose Agenzie istituzionali impegnate nel campo della Sicurezza quali il Centro Alti Studi per la Difesa (CASD) e il Centro Militare di Studi Strategici (CeMISS). Ha pubblicato diversi saggi e volumi e partecipato a numerose conferenze internazionali come relatore. È milanese, ha 60 anni, è sposato e ama lo sci.
Marco Sonsini
SocialTelos