Agosto 2017, Anno IX, n. 8
Nicolas Véron
Unione Bancaria Europea. Inno all'imperfezione
“Sicuramente l’Unione Bancaria è imperfetta. È un’unione parziale, con un solido sistema di vigilanza che fa capo alla Banca Centrale Europea, un sistema di risoluzione - centrato sul Comitato di Risoluzione Unico (Single Resolution Board) - un po’ meno solido e parecchi elementi ancora mancanti”
Telos: Quando alla fine del 2013 è stato raggiunto un accordo sull’Unione Bancaria Europea, l’allora Ministro italiano dell’Economia parlò di “risultato storico”. Tre anni più tardi, il Direttore Generale della Banca d’Italia ha affermato che l’Unione Bancaria “ha accresciuto l’incertezza nel settore bancario in Europa”. A suo modo di vedere, l’Unione Bancaria ha contribuito a ripristinare la fiducia nei confronti del settore finanziario, oppure ha esasperato le difficoltà dei sistemi bancari in crisi nei Paesi Membri periferici, come l’Italia?
Nicolas Véron: L’Unione Bancaria è stata di grande aiuto per risollevare la fiducia nel settore bancario dell’Eurozona, e per affrontare gradualmente le residue sacche di fragilità finanziaria - come evidenziato dai recenti annunci su Banca Popolare di Vicenza, Monte dei Paschi di Siena e Veneto Banca. Sebbene io ritenga che per troppo tempo si sia tergiversato nel decidere su queste banche, molto probabilmente una decisione sarebbe stata ulteriormente rimandata in assenza del meccanismo di vigilanza unico. Sicuramente l’Unione Bancaria è imperfetta. È un’unione parziale, con un solido sistema di vigilanza che fa capo alla Banca Centrale Europea, un sistema di risoluzione - centrato sul Comitato di Risoluzione Unico (Single Resolution Board) - un po’ meno solido e parecchi elementi ancora mancanti - tra i quali, ma non solo, un programma europeo di garanzia dei depositi, regimi armonizzati per i procedimenti di insolvenza bancaria e limiti normativi sulle esposizioni delle banche nei confronti del debito sovrano dei singoli Stati Membri dell'Eurozona per indebolire ulteriormente il circolo vizioso debito sovrano/banche che ha quasi distrutto l'Euro nel 2011-12. Ma anche nel suo attuale stato di incompiuta, l'Unione Bancaria ha reso l'Eurozona molto più resiliente. È un grande successo per la politica dell’Eurozona. Recentemente, sono stati fatti progressi notevoli nei due Stati Membri in cui i problemi del settore bancario hanno richiesto più tempo per essere affrontati, vale a dire il Portogallo e l'Italia. Ritengo che entro la fine di quest'anno il settore bancario in questi due paesi non sarà più considerato un sistema bancario zombie, sebbene possano rimanere problemi per alcune delle banche italiane più piccole, non direttamente supervisionate dalla BCE. Nel complesso, ciò avrà un impatto positivo sulla crescita economica che comincerà ad essere visibile dal 2018, partendo dal rilancio della crescita in Spagna a seguito dell'ampia ristrutturazione del sistema bancario locale, nel 2012. Naturalmente non sapremo mai di sicuro che cosa sarebbe successo in assenza di un'Unione Bancaria, ma non ho alcun dubbio che i risultati sarebbero stati meno favorevoli per ogni Stato Membro dell’Eurozona e, naturalmente, per l’Eurozona nel suo complesso.
I crediti deteriorati sono ancora un problema molto rilevante per il sistema bancario italiano. Quanto efficacemente ritiene che il Governo italiano abbia affrontato questo problema e come spiegherebbe la riluttanza degli operatori stranieri ad investire nel fondo Atlante?
Forse gli investitori stranieri sono più propensi ad investire direttamente nelle attività italiane, piuttosto che attraverso un fondo la cui creazione è stata ampiamente descritta dai media come frutto di una decisione politica. A partire dall’inizio del 2017 un’accelerazione nell’acquisto di crediti deteriorati italiani da parte di investitori specializzati è palese, e questo mi fa ritenere che esista un ottimo mercato per queste attività. La lezione che si può trarre dall’Italia, ma anche da altrove, è che se una banca è adeguatamente capitalizzata, è in grado di gestire i crediti deteriorati, vendendoli, cartolarizzandoli o rielaborandoli internamente. Il problema non è tanto la quantità aggregata di crediti deteriorati su base nazionale, ma piuttosto il fatto che alcune banche sono state gravemente sotto-capitalizzate e poco disposte a riconoscere le perdite laddove alcune posizioni andavano perdendo valore. La BCE, in qualità di supervisore, avrebbe potuto richiedere un più rapido riconoscimento delle perdite, ma meglio tardi che mai.
Secondo lei, la Brexit creerà un contesto più favorevole per l’integrazione economica e politica tra i rimanenti Stati Membri?
Ai tempi del voto, un anno fa, c’era incertezza su questo punto, ma adesso è evidente che la scelta degli elettori britannici non sta avendo alcun impatto negli altri Stati Membri. Al contrario, la percezione dell’Unione Europea e dell’integrazione europea è migliorata negli ultimi 12 mesi nell’UE27. Sicuramente, l’UE sta affrontando numerose sfide e non è il caso di compiacersi, se guardiamo alle difficoltà economiche e sociali persistenti in molti Stati Membri, tra cui l’Italia. Ma la sua capacità di resistere e assorbire lo shock del voto sulla Brexit è stata notevole, anche per quanto riguarda la preparazione dei negoziati bilaterali con il Regno Unito. Come nel corso della crisi dell’Eurozona, sembra che, nonostante i suoi difetti, l’integrazione europea sia considerata una scelta migliore rispetto alle alternative, quando arriva il momento di fare scelte serie. Da questo punto di vista, credo che la situazione del Regno Unito sia piuttosto unica e non un modello che potrebbe applicarsi ad altri paesi. Ma ovviamente solo il tempo lo confermerà.
Nel 2012, era opinione diffusa che l’elezione di un Presidente socialista in Francia avrebbe in qualche misura controbilanciato l’approccio conservativo della Merkel e spianato la strada a politiche maggiormente orientate alla crescita in tutta Europa. In realtà, l’influenza esercitata dal Presidente Hollande è stata forse inferiore rispetto a quella che molti socialisti in tutta Europa si aspettavano. C’è qualche elemento per sostenere che l’elezione del Presidente Macron possa portare un cambiamento sostanziale?
Una delle lezioni del ciclo elettorale di quest’anno in Francia è che la distinzione destra-sinistra non è più la miglior lente attraverso la quale analizzare le divisioni politiche in Europa. L'atteggiamento verso la definizione di temi come la globalizzazione, la migrazione, il cambiamento sociale e l'integrazione europea non è influenzato da questa distinzione quanto lo era in passato. Ritengo che l'elezione del presidente Macron abbia aperto una finestra di opportunità di riforma a livello UE, in particolare - ma non solo - per quanto riguarda il funzionamento dell'Eurozona. Mentre non siamo ancora pronti per un'unione fiscale, mi sembra che si possa fare molto soprattutto per quanto riguarda il quadro regolatorio per i servizi finanziari, con un equilibrio fondato su una maggiore condivisione dei rischi, ad esempio con un unico Sistema di garanzia dei depositi e più disciplina del mercato, inclusa l'introduzione di limiti di esposizione verso il debito sovrano ben calibrati con opportune disposizioni transitorie. Una volta tanto sono moderatamente ottimista sulla fatto che si faranno passi avanti in questo senso, tra le elezioni tedesche a settembre e le prossime elezioni del Parlamento Europeo nel 2019. Ci sono molti ostacoli naturalmente, ma a mio parere nessuno di questi è insormontabile. Sono anche ottimista che un clima economico più favorevole, un po’ alla volta, rassicurerà i cittadini europei, compresi gli Italiani, che è meglio per tutti vivere in un'Europa unita, piuttosto che in un continente frammentato nel quale ogni paese sarebbe in competizione con l’altro.
Mariella Palazzolo
Editoriale
Il sostantivo resilience e l’aggettivo resilient ricorrono in due passaggi fondamentali dell’intervista a Nicolas Véron: in entrambi i casi, l’economista francese vi fa ricorso per descrivere la capacità di resistenza e adattamento, in buona parte insospettata ed inattesa, che le Istituzioni dell’Unione Europea ed il processo stesso di integrazione continentale hanno mostrato, dapprima di fronte alle turbolenze nei mercati finanziari, quindi di fronte alla grande rivolta popolare (ci scuserete se non abusiamo dei solito termine in -ismo e chiamiamo le cose per quello che sono) contro la globalizzazione e le élite che ne traggono beneficio. Non è facile trovare un termine che traduca efficacemente l’inglese resilience, ma il concetto è chiaro: nonostante tutto, l’Euro e l’Unione Europea sono ancora qui.
L’Unione Bancaria è forse l’emblema di questa volontà di resistenza ad oltranza, ma anche dei suoi rischi e dei suoi limiti. Tra i detrattori della moneta unica, era opinione diffusa che proprio il sistema bancario dei Paesi periferici fosse l’anello debole sul quale si sarebbero scaricati presto o tardi gli squilibri macroeconomici dell’Eurozona. Gli effetti dell’austerità, attraverso la compressione dei redditi e l’impennata delle insolvenze delle imprese, sembravano destinati a sospingere le banche dei Paesi periferici sull’orlo dell’insolvenza, esponendo nuovamente quei Paesi alla speculazione finanziaria e non lasciando alle loro classi dirigenti altra scelta che non il recupero della sovranità monetaria. Tutto questo, ad oggi, non si è verificato: a qualche anno di distanza, Mario Draghi può invece affermare che “la crisi dell’Eurozona è superata”, celebrando nell’integrazione bancaria e finanziaria la chiave di volta della sua stabilizzazione. Tutto bene dunque? Véron non tralascia di sottolineare il carattere pericolosamente lacunoso dell’Unione Bancaria, opportunamente definita dai più scettici tripode zoppo, un’efficace vigilanza unica in capo alla BCE, un meccanismo di risoluzione unico la cui capacità di intervento non è stata ancora davvero messa alla prova ed un meccanismo di mutualizzazione del rischio tra gli Stati Membri rinviato a tempi migliori. È evidente per Véron che un assetto del genere, se può aver aumentato la fiducia degli operatori finanziari grazie alla maggiore trasparenza dei bilanci, non può spezzare, a dispetto delle dichiarazioni di principio, il circolo vizioso tra sistemi bancari nazionali e debito sovrano. Aggiungeremmo noi che, così come il risanamento delle finanze pubbliche, anche il risanamento dei sistemi bancari è affidato non già all’integrazione ed al coordinamento delle politiche nazionali, ma all’imposizione di regole armonizzate non sostenute dalla condivisione dei rischi: lacuna certamente non neutrale rispetto ai rapporti tra le economie europee, perché penalizza maggiormente i Paesi già in difficoltà e finisce per esasperare le asimmetrie interne all’Eurozona, anziché ridurle.
Insomma, l’Unione Europea e l’Euro ci sono ancora, ma con gli stessi difetti di sempre: con quali conseguenze? Ci limitiamo ad evidenziarne una. Il rafforzamento dei meccanismi di governo dell’economia affidati a regole, stabilite ed applicate da Istituzioni sovranazionali, non può che ridurre il margine, già risicato, della discrezionalità politica nelle scelte che incidono su produzione, redditi e risparmio: non ci sembra un caso che le forze politiche rimaste fedeli a questo modello di integrazione economica tendano ormai sempre più scopertamente a convergere verso un “partito unico” (vedi alla voce: Macron), nel quale le identità e le appartenenze tradizionali fatalmente scolorano. Arroccati nella loro cittadella e protetti da sistemi elettorali variamente distorsivi della volontà popolare, gli ex-socialisti e gli ex-conservatori di mezza Europa celebrano il tramonto della distinzione tra sinistra e destra; non si avvedono, o non vogliono ammettere che quella distinzione può avere senso soltanto dove Parlamenti e Governi sovrani siano nelle condizioni di operare scelte tra loro alternative, cioè discrezionali. Nel frattempo, le recenti elezioni nel Regno Unito testimoniano, tra lo sgomento di tanti commentatori, la rinascita della Sinistra britannica sulle ceneri del vecchio conflitto tra europeisti e sovranisti, ormai archiviato. Segno, forse, che sovranità e discrezionalità delle politiche economiche sono condizioni imprescindibili di riproducibilità della dialettica democratica, e quindi della distinzione tra destra e sinistra: lasciamo a voi decidere se anche questo sia un circolo vizioso.
Marco Sonsini
Nicolas Véron è un economista francese. È cofondatore del think tank Bruegel a Bruxelles, dove lavora tra il 2002 e il 2005. Giunge al Peterson Institute for International Economics (Washington DC) nel 2009, e attualmente si divide tra le due organizzazioni. La sua ricerca riguarda principalmente i sistemi finanziari e la politica dei servizi finanziari, argomenti ai quali ha dedicato numerose sue pubblicazioni, sin dal 2002. Ha partecipato a numerose audizioni parlamentari al Senato degli Stati Uniti, al Parlamento Europeo e in alcuni Stati Membri dell’Unione Europea, inclusa l'Italia. Consulente di politica finanziaria della Commissione Europea e la Corte dei Conti Europea, nonché del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, Véron è anche membro indipendente dello strumento di raccolta dati sul mercato globale dei derivati del DTCC, una infrastruttura finanziaria no-profit. Laureato in Francia presso l’École Polytechnique e l’École des Mines, ha ricoperto incarichi di alto livello nel Governo francese (per citarne uno, è stato il consulente per le imprese del Ministro del lavoro Martine Aubry nel 1997-2000), nel settore privato negli anni '90 e nei primi anni 2000 (Chief Financial Officer di MultiMania/Lycos France, società informatica francese quotata in borsa). Nel settembre 2012, Bloomberg Markets ha incluso Véron nella lista annuale dei "50 più influenti", cioè le 50 persone ‘in grado di muovere i mercati o dare forma a idee e politiche’. Nella motivazione, Bloomberg Markets ha fatto riferimento al suo sostegno, sin dai primi tempi, all’Unione Bancaria Europea. Leggete il suo blog personale, ve lo consigliamo vivamente! Véron si definisce un grande appassionato di storia e conosciamo il suo cibo preferito. Ma… shhh, questo è un segreto!
Mariella Palazzolo
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